LA DIAGNOSI
In ambito medico e clinico sentiamo molto spesso parlare di diagnosi e processo diagnostico. Chi è legittimato a fare diagnosi, quindi a produrre una certificazione attestante una patologia? Ma, soprattutto, cosa significa “diagnosi” e quali possono essere le sue implicazioni a livello emotivo e cognitivo, quando se ne riceve una?
In Italia, tra le figure che possono effettuare una diagnosi, rientra quella dello psicologo regolarmente iscritto alla sezione A dell’Albo della propria categoria. È, infatti, con la Legge n. 56 del 18 febbraio 1989 che nel nostro Paese viene istituita legalmente la figura professionale dello psicologo e nell’articolo 1 di tale legge c’è espressamente scritto che lo psicologo può fare diagnosi, nel suo ambito di competenza. La diagnosi di uno psicologo non è sovrapponibile a quella di uno psichiatra, che è un medico e che è legittimato proprio in quanto medico, a prescrivere farmaci e terapie ai pazienti. Allora di che tipo di diagnosi si tratta in psicologia? Si parla di psicodiagnosi o anche di diagnosi clinica, di una diagnosi che non vuole essere una modalità di incasellamento di individui ma una valutazione di come la persona “funziona” nel suo quotidiano, nei vari ambiti: cognitivo, emotivo e sociale. Si tratta, quindi, di una diagnosi in continua evoluzione, che si arricchisce di ulteriori informazioni con il progredire della terapia.
Il contributo che uno psicologo può dare in ambito diagnostico è però ad ampio spettro e può toccare sfere diverse.
Guardiamo più da vicino questo termine così temuto, diagnosi. Deriva dal greco e vuol dire “conoscere attraverso”, quindi significa qualcosa che non è puntuale ma in divenire, qualcosa di dinamico. Se seguiamo Vittorio Lingiardi nel suo libro Diagnosi e Destino (2018), vediamo come essa è “… anche un momento decisivo della conoscenza di sé. Ed è sempre un incontro: con il nostro corpo, la chimica dei farmaci, la scienza medica, la (s)fiducia nella medicina, la cura di sé, il passato dell’anamnesi, il futuro della prognosi, la nostra personalità, le nostre difese.” (p. IX). Che significa tutto questo? Che il momento in cui il paziente incontra la diagnosi è un momento delicatissimo, che il professionista della salute deve saper gestire in maniera ottimale. Come comunicare una diagnosi con prognosi infausta? È possibile pensare al momento della comunicazione dei risultati di un processo diagnostico come a una forma di narrazione? Ebbene, è in questo ambito che uno psicologo adeguatamente formato può fornire il suo contributo all’équipe medica, coadiuvando nella comunicazione oppure formando, all’interno di una cornice di medicina narrativa, medici e infermieri alla gestione di una comunicazione efficace. Si può pensare che nell’ambito di una malattia fisica tutto questo sia di secondaria importanza, ma, a guardare bene, le cose non stanno affatto così: il paziente (non soltanto nel senso di “persona malata” ma di “persona che soffre”) per aderire alla cura proposta dal medico deve prima aver accettato, elaborato, incontrato la sua diagnosi a livello personale. In qualche modo deve “crederci” per poter accettare anche la cura. Comunicare in maniera efficace ma empatica una diagnosi, calandosi nell’universo culturale, sociale e familiare del paziente, è il primo, delicato passo per l’instaurarsi di una relazione fondata sulla fiducia e sull’apertura tra medico e paziente.
Per usare, ancora una volta, le pregnanti parole di Lingiardi: “La malattia come storia è il fulcro psicoanalitico della cosiddetta «medicina narrativa», un approccio che rappresenta il tentativo di colmare lo spazio, talora il vuoto, tra il meraviglioso armamentario tecnico-diagnostico della medicina moderna e l’esperienza umana della malattia. (Lingiardi, 2018, pp. 22-23). Medicina e narrazione, dunque, un connubio possibile e auspicabile, soprattutto quando si ha a che fare con individui che provengono da una cultura altra, con valori, credenze e rappresentazioni molto lontane da quelle della cultura di accoglienza.
Chi meglio di uno psicologo adeguatamente formato può fare da liason tra l’ambito scientifico e tecnico della medicina allopatica e l’ambito creativo della narrazione? La psicologia, da sempre, infatti, abita due mondi: quello scientifico, intessuto di dati, informazioni verificabili, ipotesi ecc. e quello delle scienze umane, popolato di storie, esperienze, metafore e sogni.
Una buona narrazione può fare la differenza anche in ambito medico: può significare compliance al trattamento proposto e, a monte, può anche significare una miglior diagnosi: una diagnosi che parte dall’ascolto attivo di quello che ha da dire il paziente, inteso nella sua globalità di persona che è portatrice di specifici valori e credenze.
Riferimenti bibliografici:
Curi, U. (2017), Le parole della cura – medicina e filosofia, Milano: Raffaello Cortina Editore
Lingiardi, V. (2018), Diagnosi e destino, Torino: Giulio Einaudi Editore
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