QUANDO LA RELAZIONE SI BASA SULLA DIPENDENZA: LA
CODIPENDENZA RELAZIONALE
Tutto quello che conta davvero per lui è riuscire a mettere insieme un’altra dose, un altro
attimo di tregua dalla vita, dalla paura di rimanere senza… quindi di soffrire una crisi
d’astinenza, qualcosa a cui non riesce nemmeno a pensare senza farsi salire un’ansia
pazzesca. La dose… la dose è tutto ciò che conta e tutto il suo tempo, la sua energia, la
sua motivazione girano intorno a questo: “procurarsi la dose”. Per questo ha bisogno di
lei, che lo cura, gli procura i soldi che gli servono, gli offre riparo e affetto. Un affetto
debordante e soffocante… e soprattutto controllante. Perché lei lo controlla, vorrebbe che
smettesse di farsi, perciò lo chiama, gli manda i messaggi, lo scruta… e lui ha imparato a
mentire, a manipolare, a scovare sotterfugi di ogni tipo… L’equilibrio è precario ma è
necessario. Non c’è via d’uscita. Non c’è scampo.
Lei gli fa da infermiera, madre, sorella, amante. Lo fa perché vuole salvarlo: tutta la sua
vita gira intorno a lui, ai suoi bisogni, ai tentativi di tenerlo lontano dalla droga. Lei sa che
lui ha bisogno di lei e questo la gratifica, la fa stare bene, la fa sentire come l’eroina di un
romanzo drammatico. Lui ha così bisogno di lei che non la lascerà mai e questo è tutto ciò
che conta davvero. Lui è suo.
In questa relazione il tempo sembra un loop infinito: non c’è spazio per ripensare il
passato, né individuale né di coppia; non c’è nessuna possibilità di guardare al futuro
come progettualità, opportunità di cambiamento e realizzazione. Il tempo della persona
tossicodipendente è come sospeso in un attimo eternamente presente (Daure & Boresa,
2022) che è come congelato nella ricerca dell’ennesima dose e nell’effimero godimento
della stessa, in un circolo vizioso per cui la ricerca della sostanza è sempre più ansiogena e
urgente e il momento del godimento è sempre più breve e frustrante. Così come è
sospeso il tempo, anche la narrazione della storia è sclerotizzata e irregimentata in “rituali
di consumo” (Daure & Boresa, 2022): tutto muove intorno alla sostanza, sia per il
tossicodipendente che per il resto della famiglia, che cerca di contrastare l’abuso, attuando
condotte di controllo più o meno funzionali: “… una danza interattiva che imprigiona chi vi
partecipa” (Daure & Boresa, 2022, p. 48). Una danza ossessiva, si potrebbe dire, dove
controllo e manipolazione giocano un tiro alla fune da entrambe le parti, senza vincitori né
vinti, in un perenne, precario equilibrio che soddisfa i bisogni disfunzionali dei protagonisti.
In tutto questo, sembra difficile, all’apparenza, comprendere perché una persona che non
fa uso di sostanze, che ha un lavoro e una vita sociale, dovrebbe impelagarsi in una
relazione che non può che causare dolore e guai (economici, con la giustizia, con eventuali
familiari e amici ecc.). Perché, quindi, alcune persone sentono il bisogno di mettere in
gioco tutte le loro risorse (affettive, emotive, cognitive, economiche…) per cercare di
“salvare” qualcuno che molto probabilmente non cambierà mai? Ci viene in aiuto Borgioni
(2015), il quale spiega con molta semplicità che chi risponde all’impellente e indifferibile
richiesta di aiuto del tossicodipendente è un dipendente affettivo, la cui principale paura è
quella dell’abbandono e che, quindi, instaura una relazione con qualcuno che avrà sempre
bisogni di lui/lei. Il bisogno dell’altro è ciò che finisce per garantire il dipendente affettivo dal terrore della perdita. In quest’ottica, allora, diventano sopportabili le bugie, i sotterfugi,
le meschinità, le ricadute, i furti ecc. Il dipendente affettivo è disposto a sopportare tutto
pur di non incorrere nell’abbandono, paura intollerabile, finanche impensabile (speculare
alla paura dell’astinenza che prova il tossicodipendente). La danza ossessiva e congelata in
un eterno presente che non lascia spazio a progetti e cambiamento inizia quando il
tossicodipendente in stato di forte bisogno (può aver perso il lavoro, la casa, il sostegno di
familiari e amici ecc.) incontra il dipendente affettivo, vulnerabile alle richieste d’aiuto
disperate, che si lancia in qualità di “salvatore” o “salvatrice” in una relazione amorosa,
che per quanto disfunzionale, mette al riparo dalla paura dell’abbandono (Borgioni, 2015).
È il bisogno che lega entrambi i partner in una relazione che non dà scampo, che non offre
vie di fuga, opportunità di crescita e di maturazione. Una relazione che, tra alti e bassi,
remissioni e ricadute, andrà avanti per molto tempo ma sempre uguale a sé stessa. Come
il tossicodipendente chiede aiuto per uscire dal tunnel dell’abuso, ma in realtà manipola il
partner per avere la possibilità di acquistare la dose quotidiana e per ricevere tutti quei
benefici che una relazione stabile può offrire, allo stesso modo, il dipendente affettivo, che
si prodiga in tutti i modi per il partner che si droga, fornendogli anche riparo, risorse
economiche e calore affettivo, in realtà teme la possibilità che si concretizzi un effettivo
cambiamento, che il tossicodipendente si tiri fuori davvero dal buco nero in cui è
precipitato. Infatti, se il tossicodipendente chiude la porta una volta per tutte alla droga
cosa resta a garantire che non abbandonerà mai il suo partner?
Un legame di codipendenza come quello illustrato nella scena iniziale può durare soltanto
fintantoché dura il precario, circolare equilibrio su cui è basato: quando uno dei due
partner trova la forza di uscire dal loop, il legame si spezza.
È davvero possibile trovare altre, più mature e adattive modalità relazionali? Quando una
coppia vive un legame di codipendenza è opportuno rivolgersi a un professionista
qualificato che possa aiutare i due partner a trovare un nuovo e più salutare equilibrio.
Riferimenti bibliografici:
Borgioni, M. (2015). Dipendenza e controdipendenza affettiva: dalle passioni scriteriate
all’indifferenza vuota. Roma: Alpes.
Daure, I. & Borcsa, M. (2022). Il genogramma nella pratica sistemica contemporanea –
sviluppi e prospettive. Milano: franco Angeli.
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