L’attore ha mille facce, mille maschere, che indossa con disinvoltura a seconda dei film, delle occasioni: è l’eroe che salva il mondo da una catastrofe imminente, è l’uomo romantico che fa innamorare di sé la sua bella, è il cattivo che combatte solo contro tutti, è il padre affettuoso che si sacrifica per la famiglia…
Il clown mostra la sua faccia allegra con il suo eterno sorriso dipinto nel cerone, fa capriole e sgambetti, piroette e salti; si nutre delle risa del suo pubblico, ma nessuno conosce davvero il suo volto. Nessuno sa se la sua gioia è reale…
Che cos’è l’identità? Cos’è che ci fa dire, con una certa sicurezza, “questo sono io” o “io sono così”? (Jervis, 1997). Superficialmente, il tema dell’identità appare quasi banale. Di norma, infatti, sappiamo ben identificarci agli altri: nome, cognome, professione, indirizzo ecc. da un punto di vista strettamente burocratico, quindi, l’identità di ciascuno di noi è facilmente determinabile, verificabile attraverso documenti, attestati e quant’altro. Ma naturalmente l’identità di un individuo è qualcosa di più e di diverso da un insieme di dati accertabili. Si tratta di un costrutto che ha diverse accezioni e varie sfaccettature. Partiamo, con Jervis (1997), dall’accezione di identità collettiva. Ognuno di noi, fin dall’infanzia, si ritrova “gettato” in un ambiente, in un contesto specifico, in una famiglia di origine che trasmetterà un certo tipo di valori, di cultura, di tradizioni e di miti; abitiamo in un determinato Paese, parliamo una certa lingua e, crescendo, ci riconosciamo, chi più chi meno, in quelle che sono, di fatto, le nostre radici. Come fa acutamente notare Jervis (1997, p. 11): “… queste caratterizzazioni sociali sono pubbliche e palesi. Sappiamo di essere riconoscibili e catalogabili…” Non solo. Anche noi stessi sentiamo l’esigenza di appartenere a qualcosa, a un contesto e scegliamo attivamente l’ambiente al quale vogliamo appartenere, desiderando fortemente che gli altri comprendano immediatamente di quale collettività facciamo parte, anche mostrando dei segni distintivi, come un certo gergo, un certo modo di vestire, ecc. (Jervis, 1997). In questo senso, dunque, la nostra identità collettiva, sebbene da noi attivamente modellata, è qualcosa che passa anche per gli occhi dell’altro. Noi desideriamo dare una certa immagine di noi stessi, in linea con le nostre aspettative, i nostri valori e i nostri obiettivi. Vogliamo che gli altri ci vedano in un certo modo. Ma come stanno le cose per quanto riguarda l’identità personale? Cioè quelle caratteristiche che rispondono alla domanda: “chi sono io?” In questa accezione, il costrutto di identità si fa più complesso e sfumato, meno definito. Sono sempre la stessa persona che ero in passato? Sono esattamente ciò che mostro agli altri? Mi accetto realmente per quello che sono? Queste sono soltanto alcune delle domande che spesso ci poniamo su noi stessi e la cui risposta può fare la differenza in termini di soddisfazione per la nostra esistenza. Un rassicurante senso di continuità al nostro esistere è fornito dai nostri ricordi; la memoria, infatti, tiene le fila della nostra storia, srotolando nel tempo un capitolo dopo l’altro, offrendo senso e significato a tutto l’insieme. Tuttavia, il nostro senso di identità personale è qualcosa di fragile: traumi ed esperienze molto negative possono produrre ferite profonde che finiscono per intaccare la nostra essenza più intima e turbare la nostra sicurezza su chi realmente siamo. Parafrasando Jervis (1997), l’essere umano ha bisogno di esistere senza dissolversi. Abbiamo, quindi, necessità di una certa stabilità nel nostro senso di identità personale. Il cambiamento, la trasformazione fanno certamente parte di un sano sviluppo dell’individuo. Il bambino, crescendo, si trasforma prima in un adolescente in cerca di autonomia e in lotta con i valori e le tradizioni di famiglia e spesso anche con quelli della società in generale, infine, in un uomo adulto con una sua distintiva identità, che ha sviluppato, gusti, inclinazioni e desideri che gli sono propri. Ma, come, detto più sopra, esperienze particolarmente dolorose possono scardinare l’equilibrio raggiunto: traumi psichici, come lutti, perdite significative oppure menomazioni permanenti, traumi fisici, malattie invalidanti ecc. possono avere come conseguenza una rottura nella continuità del nostro senso di identità, che ha bisogno di essere ricucito e, forse, trasformato. Ma è davvero possibile cambiare senza prima riuscire ad accettarsi? Secondo Jervis (1997) accettarsi “significa prendere atto di una perdita”, nel caso, appunto, di drastici cambiamenti avvenuti nella propria vita; significa accettarsi “al passato”, nel senso di prendere coscienza di ciò che realmente è stata la nostra vita fino a questo momento per poter cambiare gli effetti che gli eventi passati possono produrre sul nostro presente; infine, significa accettarsi “al presente”, cioè prendere atto delle proprie risorse interiori attuali di cui si può disporre.
Accettazione e cambiamento possono essere percorsi non lineari e irti di ostacoli per alcuni individui, così come per alcune coppie e per alcune famiglie: in questi casi è opportuno rivolgersi a un professionista qualificato. La terapia sistemico-familiare è molto indicata per percorsi di ricerca di senso e ristrutturazione della propria storia.
Riferimento bibliografico
Jervis, G. (1997). La conquista dell’identità – essere se stessi, essere diversi. Milano: Feltrinelli.
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