L’INTENZIONALITA’
Il bambino caracolla dalla nonna che sta apparecchiando la tavola per la cena e le offre un piccolo fiore di plastica, con un gran sorriso stampato sulla faccia. La nonna sorride a sua volta e allunga la mano per prendere il dono, ma il bambino, velocissimo, ritira il braccino steso con una gran risata e nasconde il fiore dietro la schiena, guardando la nonna con sguardo divertito. La nonna, sorpresa e anche lei divertita, le mani sui fianchi, lascia stare le stoviglie ed esclama:
«Furbetto che sei! Il fiore non me lo dai più?» Il bambino ride di nuovo, gettando indietro la testa, fa ancora il gesto di offrire il fiorellino, poi subito ritira la mano prima che la nonna riesca ad afferrarlo. La scena si ripete più volte, con grande divertimento da parte di entrambi.
Quante volte vi sarà capitato di assistere o partecipare a scene come questa con i vostri figli o nipoti? Fin da molto piccoli i bambini sono in grado di leggere le intenzioni degli altri con naturalezza e semplicità. Secondo Reddy (2010), le intenzioni sono qualcosa che comprendiamo in maniera immediata, senza dover ricorrere a complicate e faticose inferenze, già fin dall’infanzia, grazie alle esperienze precoci di scambi interpersonali che tutti noi facciamo. L’intenzionalità, infatti, ha a che fare con i primi scambi relazionali di cui facciamo esperienza con gli altri significativi e anche con i momenti di divertimento che questi scambi procurano ai due partner. La capacità di comprendere le intenzioni degli altri, seppur presente fin dalla prima infanzia, si affina sempre più durante lo sviluppo, rendendoci dei buoni “lettori della mente”, sufficientemente abili, non soltanto a comprendere cosa passa per la testa degli altri ma anche a simulare e dissimulare pensieri, emozioni e sentimenti. Seguendo Reddy (2010) l’intenzionalità è direzionale, cioè possiede un contenuto, un oggetto mentale verso cui si rivolge; ha una forma: le azioni eseguite, cioè, devono essere coerenti; è volontaria, quindi, non è un riflesso e non è accidentale (per esempio, inciampare non è un’azione intenzionale). La caratteristica più saliente dell’intenzionalità è però quella che Reddy (2010) chiama l’aspettativa del cambiamento nei confronti di un’azione: ci aspettiamo, infatti, che eseguire un’azione apporti un cambiamento di qualche tipo nell’ambiente. E’ bene sottolineare che la lettura dell’intenzionalità dell’altro può anche essere collegata ai comportamenti prosociali: percepisco il fine della tua azione, quindi posso decidere di aiutarti ad ottenere il risultato che desideri (per esempio, se capisco che le tue azioni sono finalizzate alla ricerca di qualcosa che hai perso, posso decidere di unirmi a te nella ricerca), viceversa, posso utilizzare la mia comprensione delle tue intenzioni per ostacolarti (per esempio, se comprendo che le tue azioni hanno lo scopo di raggiungere la stessa prestigiosa posizione lavorativa che interessa anche a me, posso decidere di agire in modo di danneggiarti). Infine, le intenzioni sono contestuali: senza la cornice di un contesto spaziale e temporale che fa da sfondo all’azione, non saremmo in grado di rilevarne lo scopo e il significato, inoltre, esse hanno bisogno del coinvolgimento dell’individuo, cioè, il soggetto deve “sperimentare […] le azioni intenzionali di qualcun altro come dirette nei propri confronti” (Reddy, 2010, p. 184). Questo vale anche quando assistiamo semplicemente come osservatori ad un’azione; pensiamo a quando guardiamo un atleta eseguire un salto particolarmente spettacolare: possiamo percepire nel nostro corpo una forte tensione muscolare, come se noi stessi stessimo per eseguire il salto. L’intenzionalità, dunque, ha a che fare con una forma di empatia, di immedesimazione nell’altro, ed è richiestiva, nel senso che un’azione intenzionale richiede che si risponda in qualche modo. Agiamo nel nostro ambiente e verso gli altri avendo delle specifiche aspettative riguardo alle nostre azioni e a quelle di chi interagisce con noi e attraverso le nostre azioni intenzionali influenziamo gli altri, così come gli altri influenzano noi, e apportiamo grandi e piccoli cambiamenti nell’ambiente fisico e sociale in cui viviamo.
Ma come accade che un bambino diventa consapevole delle intenzioni altrui? Seguendo Reddy (2010), sono le prime interazioni giocose tra il piccolo e la madre (per esempio, il gioco del cucù) che introducono il bambino all’intenzionalità. Inizialmente, le sequenze di interazione tra i due partner sono caratterizzate dall’esagerazione dei gesti e delle espressioni materni ed è proprio questo enfatizzare i movimenti (motionese) che aiuta il piccolo a capire quali sono le effettive intenzioni della madre, perché le rende salienti. Inoltre, la ripetizione della sequenza rende le azioni familiari e, quindi, chiare. Infine, il piccolo fa esperienza dell’intenzionalità proprio perché la madre lo coinvolge nelle sue azioni e risponde ai suoi vocalizzi e ai suoi gesti in maniera coerente e appropriata.
Per i bambini con sviluppo tipico, comprendere l’intenzionalità è, quindi, un processo naturale e semplice, non è così, invece per quelli con sviluppo atipico, che possono sentirsi gettati in un modo alieno di cui non capiscono le regole, provando perciò ansia e paura. È importante, in questo caso, rivolgersi precocemente a professionisti qualificati che possano sostenere il bambino e la sua famiglia lungo l’arco dello sviluppo.
Riferimenti bibliografici
Reddy, V. (2010). Cosa passa per la mente di un bambino – emozioni e scoperta della mente. Milano: Raffello Cortina Editore.
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